Alla maestra Raffaella, che mi insegnò a sognare

 

Aula scolastica vuota anni '80 con banchi celesti e sedie in legno, lavagna con tracce di gesso, crocifisso sopra la cattedra, carta geografica dell'Italia, luce dorata del pomeriggio che entra dalle finestre. Scuola elementare italiana tipica dell'epoca.



Dopo il secondo posto con "Il Museo Segreto di Lelè", dove racconto di una bidella che mi insegnò l'infinito senza saperlo, ho capito che dovevo ringraziare anche chi, nella stessa scuola di Montone, mi insegnò l'infinito sapendo benissimo cosa stava facendo.


Lelè mi costringeva al silenzio e involontariamente liberava la mia immaginazione. La maestra Raffaella, invece, mi diceva "Fabiano, usa la fantasia!" e lo diceva di proposito, con metodo, con amore pedagogico consapevole.


Due facce della stessa medaglia formativa: l'una inconsapevole, l'altra volontaria. Entrambe necessarie per creare un aspirante scrittore.


Questa è la lettera che accompagna il racconto che le sto inviando.




 

Cara Maestra Raffaella,


ti scrivo mentre il tempo fa il prestigiatore al contrario e mi restituisce quella tua voce, autorevole ma dolce, che ancora oggi posso ascoltare perfettamente, tanto è impressa nel cuore.

Mi hai insegnato tu che la fantasia non è fuga ma medicina, che usare la testa significa prima di tutto aprire il cuore. Eri la mia seconda mamma in versione didattica, quella che volontariamente (che parola immensa!) trasformava ogni lezione in un'avventura dove l'infinito poteva nascondersi nel gesto più piccolo.


Ora a quarantanove anni, con le mani già provate dalla fatica dei sogni rincorsi e ancora da raggiungere, ti confesso che vorrei tornare a quel banco. Non per nostalgia, ma per essere più bravo, per provare a darti più soddisfazioni di quelle che riuscivo a trasmetterti allora.


Ti mando "Il Museo Segreto di Lelè", secondo al Premio Apertamente, ma primo nel campionato dei ricordi che salvano. È anche un po' la storia della nostra scuola di Montone, di quelle mezz'ore apparentemente vuote prima dell'inizio delle lezioni, quando l'attesa forzata diventava, grazie soprattutto ai tuoi insegnamenti, una cattedrale dell'immaginazione.


Quella scuola che oggi è fatiscente è la mia patria letteraria: non un luogo ma un tempo dell'anima che tu hai reso eterno. Ogni parola che scrivo porta dentro un frammento di te che dicevi "Fabiano, usa la fantasia!" e io l'ho usata, la uso ancora, la userò sempre di più.


So che parli ancora di me dopo tutti questi anni. Anch'io parlo di te, gran demiurga dei miei giorni spensierati, di quando tutto era possibile perché tu lo rendevi possibile.


Con l'affetto intatto di quel bambino che sono ancora quando penso a te,


Fabiano


P.S. - La nostalgia di quei giorni è l'unica malattia benefica che non voglio guarire. È quella che mi tiene vivo e creativo.





Alcune persone ti salvano senza saperlo, come Lelè. Altre, come la maestra Raffaella, ti salvano di proposito, con dedizione quotidiana.


Le prime ti insegnano che l'infinito può nascere anche dall'imposizione. Le seconde ti insegnano che cercarlo è un diritto, anzi, un dovere dell'anima.


A entrambe devo ciò che sono.

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