Il Dado che si Ribellò: Quando il Caso Decide di Non Decidere Più

Illustrazione surreale di un dado antropomorfo con espressione determinata e braccia conserte, con le scritte SÌ, NO, FORSE, FOTTITI sulle facce. Il dado sta su un libro davanti a colonne neoclassiche del Tribunale del Destino. A destra un uomo con occhiali tiene fogli che si trasformano in farfalle, sullo sfondo una libreria magica.

Augusto Fatalini ha un problema: non riesce a prendere decisioni. Nemmeno le più banali. Caffè o tè? Chiamare o non chiamare? Destra o sinistra? Per ogni dubbio, la soluzione è sempre la stessa: affidare tutto a un dado. SÌ, NO, FORSE, FOTTITI. Quattro facce, infinite scelte evitate.
Funziona alla perfezione. Finché una mattina il dado smette di collaborare.
Perché a volte, anche gli oggetti più pazienti raggiungono il loro limite. E quando un dado decide di ribellarsi, le conseguenze vanno ben oltre la geometria.
Augusto scoprirà che delegare le proprie scelte ha un prezzo. E che alcune domande non si risolvono con un lancio.
Un racconto dove il surreale incontra il quotidiano, l'ironia sfida la filosofia, e persino un dado può insegnarci qualcosa sul coraggio di scegliere.


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Il Dado che si Ribellò
ovvero: 
Come Augusto Fatalini Scoprì che il Destino è un Imbroglione che Bara

 
 
Prologo: La Geometria del Disamore
 
Augusto Fatalini aveva quarantatré anni, due mesi e diciassette giorni quando decise che la ragione era una truffa cosmica peggio dei fondi d’investimento ad alto rendimento. La sua ultima fidanzata, Beatrice Certezza, lo aveva lasciato dopo avergli detto: «Tu pianifichi troppo, Augusto. Persino i tuoi baci seguono un algoritmo».
E aveva ragione. Augusto aveva calcolato tutto: l’angolo ottimale per l’inclinazione del collo (23,7 gradi), la pressione ideale delle labbra (equivalente al peso di tre petali di rosa bulgara), la durata perfetta (4,2 secondi con una tolleranza di 0,3). Eppure Beatrice se n’era andata con Rocco Spontaneo, un tipo che baciava come uno starnuto e pianificava la vita come un sonnambulo in un labirinto.
Fu mentre contemplava il vuoto lasciato da Beatrice che Augusto ebbe l’illuminazione.
 
 
Capitolo 1: La Nascita del Dado Esistenziale
 
«La ragione», proclamò Augusto al suo riflesso nel vetro dell’Osteria del Destino Beffardo, «è una cartomante cieca che legge carte bianche in una stanza buia!»
Il barista, Peppe Filosofo (laureato in lettere ma costretto dalla vita a versare birre invece che versi), alzò lo sguardo: «Signor Fatalini, ma ha bevuto solo acqua tonica!»
«Appunto!» tuonò Augusto. «Sobrio come un teorema, eppure ubriaco di verità! Ho deciso tutto razionalmente nella vita: laurea in ingegneria gestionale con 110 e lode, master in ottimizzazione dei processi, fidanzamento programmato per i ventotto anni, matrimonio previsto per i trenta. E dove sono ora? Solo come un eremita in mezzo alla folla!»
Fu in quel momento che entrò nell’osteria Mastro Geometra Casualini, un artigiano di dadi da gioco che aveva perso tre dita in un incidente con una fresa ma guadagnato una saggezza proporzionale agli arti mancanti.
«Un dado», sussurrò Augusto afferrandolo per il camice sporco di trucioli. «Mi serve un dado che decida per me!»
«Un dado normale ha sei facce», rispose Casualini con la calma di chi ha visto troppe stranezze per stupirsi ancora.
«No! Sei sono troppe opzioni! Quattro! Un tetraedro! Le decisioni fondamentali della vita sono quattro: Sì, No, Forse, e... Fottiti!»
Casualini osservò quell’uomo – magro come un’equazione, barba di tre giorni sempre identica, occhi grigi che misuravano il mondo in millimetri – e lo guardò come si guarda un genio o un pazzo, che spesso sono la stessa persona vista da angolazioni diverse. Prese le misure, annotò le specifiche, e promise consegna in tre settimane.
 
 
Capitolo 2: Il Protocollo del Caos
 
Tre settimane dopo, come promesso, il dado venne consegnato. Era un tetraedro perfetto di legno di ciliegio invecchiato nelle cantine di un monastero dove i monaci avevano fatto voto di indecisione perpetua. Su ogni faccia, incise con caratteri gotici:
SÌ (in verde speranza)
NO (in rosso passione)
FORSE (in giallo dubbio)
FOTTITI (in viola ribellione)
Augusto sviluppò immediatamente il Protocollo del Caos Deterministico. Ogni decisione, dalla più banale alla più esistenziale, sarebbe stata delegata al dado. Tuttavia non era completamente folle. Stabilì tre Clausole di Salvaguardia: per decisioni mediche, legali o lavorative critiche, il dado rimaneva nel cassetto. Non voleva sfidare la ragione, solo prendersi una vacanza da lei. Portava con sé un taccuino rilegato in pelle dove annotava:
7:15 – Colazione? Lancio dado: FORSE. Interpreto come "colazione leggera". Mangio mezza brioche.
8:30 – Prendere l’autobus? Lancio dado: FOTTITI. Vado a piedi. Arrivo in ritardo ma scopro un negozio di vinili che non avevo mai notato.
10:45 – Rispondere all’email del capo? Lancio dado: NO. Non rispondo. Stranamente, il problema si risolve da solo.
Non sempre andava bene. Una settimana il dado disse NO alla doccia per quattro giorni consecutivi. I colleghi iniziarono a evitarlo diplomaticamente. Ma anche quello, scoprì Augusto, aveva il suo lato educativo: gli insegnò quanto fosse sottile il confine tra eccentricità e isolamento sociale.
Col passare dei giorni, Augusto notò che il dado sembrava scaldarsi leggermente quando toccava certe decisioni. Una volta, giurò di averlo visto mostrare due facce simultaneamente per una frazione di secondo. Ma si convinse che fosse stanchezza.
 
 
 Capitolo 3: L’Amore Aleatorio
 
Il dado, va detto, aveva sviluppato un suo senso dell’umorismo. Dopo settimane di decisioni su caffè, percorsi e scarpe da indossare, sembrava annoiato dalle questioni pedestri. Fu così che, una mattina di martedì, decise di portare Augusto esattamente dove non voleva andare: in una libreria.
Fu durante una di queste passeggiate casuali (il dado aveva detto FOTTITI alla metropolitana) che Augusto entrò nella Libreria dell’Improbabile, un negozio dove i libri erano ordinati non per autore o titolo, ma per "sensazione che provocano alle tre del mattino".
Dietro il bancone c’era Serendipita Casuale (sì, i suoi genitori erano hippie matematici), una ragazza con gli occhiali storti davanti a due occhi blu profondo, capelli biondi che avevano visto tempi migliori e un sorriso che sembrava conoscere il finale di una barzelletta cosmica che nessun altro aveva ancora capito.
«Cerco un libro», disse Augusto.
«Quale libro?»
Augusto lanciò il dado sul bancone. Rotolò, rimbalzò contro una pila di volumi sulla teoria del caos, e si fermò: SÌ.
Ma per un istante, prima di fermarsi, il dado sembrò sospeso a mezz’aria, come se stesse decidendo quale faccia mostrare. Serendipita lo notò.
«Sì a cosa?» chiese Serendipita, con un sopracciglio alzato.
«Non lo so. Il dado ha detto sì. Interpreto come: sì, voglio il libro che lei mi consiglierà».
Lei rise. Non una risata educata, ma una di quelle risate che fanno vibrare l’universo come una corda di violino pizzicata da un gigante gentile.
«Le do questo», disse porgendogli un volume. «Si intitola "L’Autobiografia di un Dado da Gioco". L’autore sostiene di essere stato uno di questi oggetti in una vita precedente e che ogni dado ha bisogno di capire cosa prova chi lo lancia. È un libro di empatia geometrica, se vogliamo. Forse le farà capire cosa sta facendo al suo povero tetraedro».
Augusto prese il libro e, per un istante, gli sembrò che la foto dell’autore in copertina strizzasse l’occhio. Ma quando guardò meglio, era solo un gioco di luci.
 
 
Capitolo 4: La Danza del Tetraedro
 
Il secondo incontro non fu deciso da Augusto, né da Serendipita, e nemmeno dal dado. Fu deciso dal libro stesso, che si rifiutò di essere letto se non in presenza di testimoni. Ogni volta che Augusto lo apriva da solo, le pagine mostravano solo ricette per frittate. Ma quando tornò in libreria, tre giorni dopo (il dado aveva in precedenza detto SÌ alla domanda "devo tornare in libreria per capire questo libro?"), il volume si comportò benissimo.
«È un libro esibizionista», spiegò Serendipita. «Ha bisogno di pubblico per funzionare».
«Sa», aggiunse studiando Augusto con curiosità, «ho sempre trovato affascinante chi cerca di sistematizzare il caos. È come tentare di pettinare il vento. Bellissimo e impossibile allo stesso tempo».
E così, per leggere un libro che fingeva di essere un dado autobiografico, Augusto e Serendipita iniziarono a frequentarsi. Ma non nel modo normale. Ogni appuntamento era deciso dal dado.
Cinema? FORSE, interpretato come "andiamo ma usciamo a metà film".
Cena romantica? FOTTITI, trasformato in "picnic notturno al cimitero monumentale".
Primo bacio? NO, che paradossalmente li portò a baciarsi per dispetto al dado.
Serendipita non solo accettava questo metodo, ma ne era affascinata. Aveva persino iniziato a portare il suo dado: un ottaedro con opzioni come "Perché no?", "Assolutamente", "Mai nella vita", "Chiedi dopo", "Ridi", "Piangi", "Balla", "Scappa".
I loro appuntamenti erano conversazioni tra solidi platonici.
Durante uno di questi incontri, mentre aspettavano che il dado decidesse se ordinare tè o caffè, Augusto confessò: «Sai, prima calcolavo anche la velocità di arretramento della mia attaccatura dei capelli. Zero virgola tre millimetri al mese. Secondo le mie vecchie proiezioni dovrei essere completamente calvo il 15 marzo del 2031». Serendipita lo guardò seria per un istante, poi chiese: «E avevi già deciso come pettinare i capelli che non avrai?» «Avevo valutato tre opzioni di turbante», rispose Augusto, serissimo. Fu la prima volta che risero insieme senza che nessun dado l’avesse ordinato.
«Il mio dado dice BALLA», diceva lei in mezzo alla strada.
«Il mio dado dice FOTTITI», rispondeva lui.
E così ballavano mandando tutti a quel paese, due matti che avevano trasformato l’esistenza in una roulette russa con proiettili di felicità.
 
 
Capitolo 5: La Rivolta delle Probabilità
 
Erano passati tre mesi di appuntamenti aleatori, diciassette picnic in luoghi improbabili e un numero incalcolabile di decisioni delegate alla geometria del caso. Il dado, intanto, aveva iniziato a mostrare segni di usura: gli spigoli smussati dalle troppe domande, le facce leggermente sbiadite dal continuo rotolare. Augusto non ci fece caso. Avrebbe dovuto.
Le ultime tre notti, Augusto aveva dormito male. Sognava di essere la X di un’equazione dove qualcuno cambiava continuamente il risultato. Si svegliava sudato, con la sensazione di aver perso qualcosa di fondamentale.
Un giovedì mattina, mentre il dado decideva se dovesse o meno lavarsi i denti (FORSE, interpretato come "solo gli incisivi"), Augusto notò qualcosa di strano. Il dado tremava.
Non era un terremoto. Non era la sua mano. Il dado stesso vibrava come se contenesse un universo in miniatura che stava implodendo.
Augusto fissò il dado tremante, ipnotizzato. La stanza iniziò a ondeggiare. Le ore di sonno perduto, l’accumulo di decisioni delegate, la tensione di una vita sospesa tra quattro facce di legno: tutto confluì in un momento di vertigine assoluta.
Improvvisamente, il tetraedro si sollevò di tre centimetri dal tavolo, roteò su se stesso e quando ricadde mostrava contemporaneamente tutte e quattro le facce. Come se fosse diventato trasparente e solido insieme, ogni faccia visibile e leggibile: SÌ NO FORSE FOTTITI, tutto insieme, tutto in contraddizione.
«Impossibile!» gridò Augusto. «Un tetraedro può mostrare solo una faccia alla volta! È geometricamente, fisicamente, logicamente impossibile!»
Il dado, come in risposta, iniziò a parlare. Non con una voce, ma con una sensazione che si materializzava direttamente nel cervello di Augusto: «Credi davvero che delegare le decisioni al caso ti liberi dalla responsabilità? Stolto! Il caso sono io, e io sono stanco di decidere per te!»
La vista di Augusto si annebbiò. La stanza perse consistenza.
 
 
Capitolo 6: Il Tribunale del Destino
 
Il dado continuava a levitare, vibrando come un diapason cosmico. Le molecole dell’aria sembravano indecise se restare gas o diventare pensieri. Fu in quello spazio tra il sogno e la veglia che accadde il processo.
Augusto si ritrovò nell’Aula Magna del Tribunale del Destino, un luogo che esisteva negli interstizi tra una decisione e l’altra. Notò con stupore che il pavimento aveva lo stesso motivo del tappeto del suo salotto, solo distorto come in un incubo.
Il giudice era una slot machine senziente con la parrucca settecentesca.
«Augusto Fatalini», tuonò sputando gettoni, «lei è accusato di Abuso di Casualità di Primo Grado e Delegazione Esistenziale Aggravata. Come si dichiara?»
Augusto tirò fuori il dado per decidere come dichiararsi, ma il dado si rifiutò di rotolare. Rimase incollato alla sua mano come un parassita geometrico.
«Il dado testimonia contro di lei!» proclamò il Pubblico Ministero, che era un mazzo di tarocchi ambulante. «Dice che lei lo ha sfruttato per 2.847 decisioni senza mai, mai, MAI prenderne una con il cuore!»
La giuria, composta da biglietti della lotteria mai vinti, mormorò disapprovazione.
 
 
Capitolo 7: La Testimonianza di Serendipita
 
Ma il processo aveva le sue regole, e le regole dicevano che ogni imputato aveva diritto a un testimone del cuore. Non un testimone qualunque: uno che avesse visto l’imputato decidere senza dado almeno una volta. Il problema era che Augusto, negli ultimi mesi, non aveva mai deciso niente senza consultare il tetraedro. Tranne una cosa: aveva deciso di tornare in libreria. Tre volte. Senza lancio.
«Chiamo a testimoniare Serendipita Casuale!» annunciò l’avvocato difensore.
Serendipita entrò nell’aula portando il suo ottaedro.
«È vero», disse rivolgendosi alla giuria, «che Augusto usa il dado per decidere. Ma sapete cosa? Ha scelto di usare il dado. Quella è stata una DECISIONE. E ogni volta che interpreta il responso, ad esempio FORSE può significare colazione leggera, FOTTITI può significare camminare invece di prendere il bus, sta DECIDENDO cosa significa per lui».
Guardò Augusto negli occhi: «Non te ne sei mai accorto, vero? Il dado non decide nulla. Sei sempre stato tu. Il dado è solo un permesso che ti dai per essere spontaneo».
 
 
Capitolo 8: L’Epifania del Tetraedro
 
Il tribunale iniziò a tremare. Se Augusto aveva sempre deciso come interpretare il dado, allora il Tribunale del Destino stava processando la persona sbagliata.
La slot machine-giudice iniziò a sputare gettoni a raffica. «ERRORE DI SISTEMA! ERRORE DI SISTEMA!» gracchiava mentre la parrucca le scivolava storta.
Il Pubblico Ministero-mazzo di tarocchi si sparpagliò per l’aula in preda al panico: le sue carte presero vita, la Torre volava verso il soffitto, il Matto rideva istericamente rotolando sul pavimento mentre la Morte e il Sole cercavano disperatamente di ricomporsi in un mazzo coerente.
«Paradosso! Paradosso!» gridavano i biglietti della lotteria-giuria, alcuni dei quali iniziavano spontaneamente a vincere e perdere simultaneamente.
In mezzo a questo caos, il dado nella mano di Augusto iniziò a sciogliersi. Non come cera, ma come un’idea che perde consistenza quando la guardi troppo da vicino.
«No!» gridò Augusto. «Ho bisogno del dado! Come farò a decidere?»
«Come fanno tutti», rispose il dado mentre si dissolveva. «Male, bene, così così, ma con il cuore. E sai cosa? Va bene anche sbagliare».
L’ultima cosa che disse il dado prima di scomparire fu: «Comunque, grazie per le 2.847 avventure. Il picnic al cimitero monumentale è stato il mio preferito».
 
 
Capitolo 9: Il Ritorno al Mondo delle Decisioni
 
La dissoluzione del dado fu anche la dissoluzione del tribunale. Augusto si ridestò sul divano del suo appartamento, il dado stretto in pugno, la fronte imperlata di sudore. Erano passate tre ore o tre secondi? Il tetraedro nella sua mano era immobile, silenzioso, tornato semplice legno di ciliegio. Poi, sotto i suoi occhi, si sgretolò in polvere finissima.
Al posto del dado, sul tavolino, c’era un biglietto: «Caro Augusto, ho cambiato carriera. Mi sono trovato un lavoro come fermaporta in un casinò di Las Vegas. Almeno lì la gente sa che sta giocando. P.S. Serendipita ti sta aspettando alla Libreria dell’Improbabile. Non serve che tu decida se andarci. Ci stai già andando. FOTTITI era sempre la mia faccia preferita. Il tuo ex-dado».
 
 
Epilogo: La Geometria del Sì
 
Il biglietto del dado tremava leggermente nella mano di Augusto. Ma Serendipita era reale. O almeno, abbastanza reale da vendere libri impossibili in una libreria improbabile.
Augusto si ritrovò davanti alla libreria senza ricordare di aver deciso di andarci. I suoi piedi l’avevano portato lì mentre la sua mente era altrove. Serendipita era dietro il bancone, e quando lo vide sorrise.
«Allora?» chiese lei.
«Allora cosa?»
«Vuoi sposarmi?»
Augusto aprì la bocca per chiedere dove fosse il suo dado, poi la richiuse. Poi la riaprì. Il suo cervello iniziò a calcolare: probabilità di felicità, rischio di sofferenza, variabili non controllabili...
Poi il suo cuore disse: «Fottetevi, calcoli».
E Augusto disse: «Sì».
Non un sì tirato a sorte. Non un sì calcolato. Un sì che sapeva di poter diventare no, di poter essere forse, ma che per ora, in quel momento, in quella libreria che odorava di storie mai raccontate, era semplicemente, meravigliosamente, caoticamente: Sì.
Si sposarono lanciando riso al posto dei dadi.
Il dado, dal suo nuovo lavoro come fermaporta a Las Vegas, mandò un telegramma: «EVVIVA – stop – HO SEMPRE SAPUTO CHE SARESTE FINITI INSIEME – stop – ERA TUTTO CALCOLATO – stop – SCHERZO – stop – O FORSE NO – stop – FOTTITI – stop».
E vissero tutti casuali e contenti.
Tranne il dado che, in effetti, come fermaporta era piuttosto annoiato.
Ma quella, davvero, è un’altra storia.
 
Fine
 
(O forse è solo l’inizio. Dipende da che faccia del tetraedro state guardando.)

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